140 – Recensione

Il panorama indie è sempre stato florido di prodotti appassionanti pressochè originali, carenti forse da un punto di vista tecnico ma quasi sempre stimolanti dal punto di vista del gameplay. 140, platform game pubblicato da Double Fine, è senz’altro un titolo dal curioso impatto visivo che, nonostante le poche ore di durata, può contare su meccaniche divertenti e livelli più o meno difficoltosi. Dopo l’iniziale successo su Steam, è finalmente approdato negli store online delle console casalinghe.

140BPM

Quando nel 2010 un videogioco dalle meccaniche basilari e dall’estetica convincente come Limbo ottenne un’importante successo di critica e pubblico, l’intero panorama indie si convinse di poter garantire titoli graficamente raffinati nonostante le inevitabili limitazioni tecniche. Molti seguirono il trend tracciato dall’opera di Playdead, che fece della sinestesia tra musica e immagini e del minimalismo del suo design un benchmark imprescindibile per i platform a venire, ma pochi riuscirono a imporsi in un mercato ormai saturo come quelli dei videogiochi indipendenti. È Jeppe Carlsen, già lead designer di Limbo, a tentare un nuovo approccio sperimentale unendo la filosofia formale delle sue opere precedenti con le meccaniche classiche di un rhythm game alla Bit.Trip o Sound Shape.

Il risultato è 140, ultima opera di Double Fine Productions (software house di San Francisco che i più conosceranno per Psychonauts e Brutal Legend), in cui il giocatore controlla una sfera di piccole dimensioni con l’obiettivo di superare ostacoli, piattaforme e puzzle ambientali, attraverso scenari bidimensionali arricchiti da un cromatismo psichedelico in continuo mutamento.

Tutto in 140 è ridotto all’osso: forme geometriche basilari si alternano a comporre sezioni astratte, volutamente ridondanti; tutorial o istruzioni a schermo sono assenti e la sensazione di disorientamento è acuita dalle musiche simil dubstep della colonna sonora (140 sono i battiti per minuti della stessa), la cui padronanza dei tempi diventa indispensabile per superare burroni e sezioni in movimento o schivare forme geometriche alquanto letali.
Lungo il percorso troveremo inoltre una sorta di biglie colorate (la cui attivazione sarà necessaria per proseguire nel livello) che introdurranno nuove piattaforme e ne azioneranno altre, cambiando i colori a schermo in un tripudio cromatico ipnotizzante, mentre il ritmo incessante delle musiche si arricchisce di nuove sonorità riflettendo la complessità delle nuove strutture.

Una perla mancata

L’idea di base è convincente: la semplicità delle sue meccaniche e gli espedienti grafici di assoluta efficacia, fanno di 140 uno degli indie più curiosi e divertenti attualmente in circolazione e se non fosse per la monotonia e la breve durata dell’esperienza di gioco, avremmo sicuramente cambiato il nostro giudizio in merito.
Una volta appresi i suoi meccanismi, occorrono infatti 40 minuti circa per completare intere sezioni e i numerosi (troppi) checkpoint lungo il percorso inficiano inevitabilmente un livello di sfida già di per sè sbilanciato. Ai tre livelli iniziali se ne aggiungono solamente altri tre ma speculari ai primi e nonostante l’assenza di checkpoint in quest’ultimi, è subito chiara la scarsa propensione del team di Carlsen a sviluppare un titolo variegato e appassionante nel lungo periodo. Siamo sicuri che un maggiore numero di livelli e una maggior differenziazione degli stessi avrebbero reso 140 uno dei migliori indie game di quest’anno.

[stextbox id=”alert” caption=”COMMENTO FINALE”]Purtroppo i buoni propositi per un platform vecchio stile in veste moderna non sono supportati da un lavoro costante di espansione dell’offerta e il prezzo di €8.99 sugli store online pregiudica un prodotto che avrebbe forse raggiunto l’utenza sperata fosse stato concepito come un titolo per smartphone di poche pretese. 140 resta in ogni caso un indie interessante per chi apprezza contenuti più sperimentali.[/stextbox]

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Redazione