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Simon the Sorcerer: Origins mi ha preso alla sprovvista come un portale magico che si apre sotto i piedi mentre cerchi le chiavi di casa. Da bambino dell’Amiga, Simon era il mio eroe cinico, quello che rubava dalle offerte in chiesa e si lamentava del giocatore (“Perché mi fai questo?”). Pensavo fosse morto con i floppy da 880KB, e invece eccolo qui, prequel del ’93, con Chris Barrie che torna a prestargli la voce da adolescente imbronciato. Non è il caos surreale dei primi due capitoli, ma un’avventura più “scolastica” che funziona, con cuore e qualche inciampo che ti fa imprecare ma anche sorridere.
Immagina: stai traslocando, odi la nuova scuola, e BUM, shock elettrico dal pomello della porta. Ti ritrovi in un mondo fantasy, accolto da Calypso (non ancora quel vecchio barbuto che ricordi) che ti carica di una profezia da incubo: “impudente bambino di un altro mondo, proteggi i tomi del Primo Mago da Sordid”. Sordid? Sì, ma versione beta: ambizioso, mammo di mamma, non ancora il cattivo da fumetto. Simon, con il suo cappello da mago di seconda mano, deve infiltrarsi nell’Accademia (Hogwarts? Mai sentita), imparare incantesimi e risolvere il pasticcio. È una origin story che dà senso al primo gioco – quel libro in soffitta? Ecco da dove arriva – e ti fa quasi affezionare a questo Simon meno strafottente, con un cane da coccolare e una madre che gli manca.

Graficamente è un salto nel cartoon anni ’90: fondali vividi, animazioni che respirano vita (farfalle, folletti che si inseguono), paludi viscide e locande affollate. Non il pixel grezzo che amavo, ma un’estetica da serie TV che non c’è mai stata, con colonna sonora che remixma i temi classici in chiave orchestrale epica. E Barrie? Perfetto: “Sembro un idiota con questa veste” suona come se l’avesse detto ieri. L’umorismo resta british, meta, con Simon che rompe la quarta parete e si lamenta se lo fai congelare un poveraccio (“È più figo così”).
Il gameplay è il solito punta-e-clicca moderno: hotspot contestuali, inventario pulito, supporto pad/mouse/touch. La killer feature? Simon fa veramente il mago. Incantesimi elementali (fuoco per accendere, vento per spostare, ghiaccio per bloccare) e cappelli incantati che cambiano il tuo loot. Niente più “indossa il cane”, ma puzzle sensati: combina una pozione con squame fatate, usa il vento per far volare un troll, ecc. La mappa con spilli giganti che piovono dal cielo è geniale (e comica), anche se i fast travel sono solo tre.
Ecco il calcio nelle gengive: il gioco ti dà indizi una volta sola, sussurrati, e poi tace. Salti un dettaglio nel dialogo? Sei fregato per ore, senza hint, senza ripetizioni utili. Io ho perso i chiodi di una botola letti due capitoli prima, e ho girato a vuoto con pinze e leve inutili. Il finale timed con incantesimi è un altro mattatoio: fallisci, ricomincia da zero. La prima run è stata 10 ore di sudore, la seconda 4 ore di “ma era così semplice?!”. Puzzle logici, sì, ma un po’ di gentilezza non avrebbe guastato.

Nonostante questo, Origins ha anima. Più worldbuilding (l’Accademia pigra, il culto del Primo Mago), meno sketch sconnessi, e un arco emotivo che ti fa quasi volere bene a Sordid pre-pazzo. È Simon che cresce, pronto per il caos del primo gioco. Per i nostalgici è manna, per i neofiti un ingresso solido nel genere. Io? Ho riso, imprecato, e chiuso i crediti con un ghigno: bentornato, Simon. Spero non sia l’ultimo cappello che indossi.









