I Game Awards sono da poco passati e hanno portato con loro i tanto agognati riconoscimenti annuali propri del periodo natalizio. Tra queste varie statuette, tra questi vari vessilli, anche il premio come miglior narrativa ha trovato il suo fiero portatore che, ad indiscutibile merito, è stato riconosciuto essere Valiant Hearts circondato nella sua lotta dai vari scudieri di TellTale che nonostante una forte componente narrativa ne sono usciti un po’ ad ossa rotte.
Il titolo, di cui anche noi in tempi recenti abbiamo parlato, con la sua mistura di dolcezza e attenta attinenza storica offriva quella che potrebbe benissimo definirsi come una fiaba di guerra.
Parlando per l’appunto di fiabe, e di Ubisoft (che ne è lo sviluppatore), non può non tornare alla mente quel ricordo di non troppo distante provenienza riguardante una terra magica a cui lo stesso sviluppatore, solo qualche mese fa, ci aveva condotto, e non possiamo non sfruttare ora l’occasione per tornare a parlarne giusto per riportare sotto le luci del merito e della ribalta chi indirettamente ha contribuito, con il suo successo artistico e commerciale, alla nascita dei meriti di Valiant.
E a proposito di luci…
vi dice qualcosa la parola “Lemuria”?
Beh se non vi dice niente questa parola allora è forse il caso che, da buoni gamer quali sicuramente siete, vi facciate un bell’esame di coscienza. “Child of Light”, titolo che dà i natali alla terra sopracitata, è uno di quei prodotti che in totale autonomia, e senza necessari ed atroci lambicchi mentali, riesce a creare un qualcosa di tanto semplice quanto la cognizione universale della parola “bellezza”.
Quante volte cerchiamo di giustificare questa sensazione? Quante righe e quanto fiato sprechiamo per tentare di trasmettere al lettore o all’ascoltatore di turno questo nostro personalissimo avvertimento del reale? Una miriade.
Ed è un lavoro molte volte faticoso, che impronta tutto il suo sforzo nel trovare e nello sfruttare al meglio caratteristiche a volte elementari, a volte meno, che possano portare con loro e trasmettere questa sensazione che diviene così un po’ più complicata da tradurre, e più difficile da attribuire.
Così come un laborioso artista trova una certa reticenza nel creare un prodotto che con i suoi numerosi aspetti riesca comunque a ricondursi a quell’immediato primo impatto, così semplice da far perdere il pensiero perfino del “perché”- del motivo di tale sensazione- lasciando lo spettatore intento e obbligato al godersela e basta, relegando solo forse ad un’analisi subordinata e successiva questa ricerca scientifica che riesca a tirare fuori un “senso” da quanto visto, un senso che sarà solo, in fin dei conti, un dettaglio di cui comunque non fregherà più niente a nessuno.
Questa è Lemuria.
Questo è Child of Light:è l’avvertimento del bello.
Un bello descritto da immagini come quella soprastante, un bello che potrete avvertire fin dalla schermata del menù e ritrovarlo disseminato per ogni momento in cui la vostra mano sarà appoggiata sul pad: sarà incondizionatamente legato ad ogni momento del gioco. Un combattimento, un dialogo di inframezzo tra i personaggi; semplicemente fluttuando da una parte all’altra di Lemuria senza alcuna frenesia. Tutto è equiparato e di eguale valenza.
Questo avvertimento passa attraverso un sistema di gioco che in fondo ci mostra come Child of Light non sia altro che un Rpg a turni di stampo classico con qualche componente puzzle accennata e strappi un po’ qua e un po’ la. Il sistema di combattimento si rimodella solo per consentire una gestione sicuramente più tattica dei combattimenti, permettendo rapidi scambi tra i personaggi del team così da poterne usufruire al meglio per quanto riguarda abilità speciali e rapidità di esecuzione. Il tempo sarà la risorsa da gestire con maggiore economia, e al livello di difficoltà più elevato non si potrà sfuggire alle classiche sessioni di livellamento dei personaggi.
Fa quasi strano quindi pensare a Child of Light come un qualcosa di più della semplice operazione di revival di un genere caduto decisamente nel dimenticatoio, un’operazione nostalgia insomma.
Ma nel momento in cui sentirete la prima nota nel menù principale, nel momento in cui vedrete Aurora danzare tra sfondi ad acquerello degni delle migliori fantasie proprie delle nostre genetiche infanzie comuni, capirete che tutta l’impalcatura videoludica creata non è altro che quel tramite a cui non si richiedere spiegazione perché portatore di una bellezza immediatamente constatabile ed inequivocabile.
Passerete minuti a guardare il flebile volo di Aurora mentre tra i suoi capelli rossi (costantemente animati) si muoverà con delicata grazia attraverso quadri animati da quella che più che informatica, sembra vera e propria magia. L’animazione dei fondali sarà fondamentalmente fatta di dettagli, così da non doverli subire passivamente, ma ricercare con occhi e curiosità bambina. L’incantesimo che si crea è minimale, e punta a non invadere mai l’occhio con effetti vistosi e appariscenti; si accontenta di muoversi la maggior parte delle volte sullo sfondo, sui dettagli del mondo e sui cambi di inquadrature che non staccano quasi mai dalla visuale 2D, neanche negli inframezzi in Cg, più vicini a pagine di un libro strappate e animate dalla nostra immaginazione che bruscamente narrate sugli stilemi delle nuove game-cinematic.
E se pensate che queste sensazioni non vi basteranno, beh, vi assicuriamo che anche se non attratti dal sistema di gioco, la sola possibilità di accedere alla bellezza di queste ambientazioni sarà una motivazione più che sufficiente: vi sembrerà di scavalcare in un baleno il portale che dalla vostra infanzia vi ha portato ad essere adulti, tramite personaggi che parlano sempre e solo in rima ( la traduzione italiana, per quanto fatta con impegno, limita pesantemente questo aspetto senza però farne perdere l’effetto) una colonna sonora di note dolci ridondanti e pure, colori vivaci e una storia che si muove su un personaggio tenero, accostato ad una spada sproporzionatamente grande, simbolo eterno della forza nascosta nei luoghi più piccoli ed impensati.
Nessuna sorpresa o voglia di stupire: farvi stare in quel mondo è l’obiettivo di Child of Light. Anche solo interagire in una qualsiasi maniera con l’ambiente vi porterà ad avere quella sensazione definitiva che il gioco mira a trasmettere: non vi è crescita di trama, non vi è crescita d’azione, vi è solo un’unica costante magnifica sensazione di appartenenza.
Capolavoro?
Pensiamo di no, se i termini del capolavoro si intendono con le attuali metriche valutative scolastiche: grafica/gameplay/longevità/comparto sonoro (a parte in realtà), Child of Light non risulta nulla di definitivo in nessuno di essi, solo un buonissimo prodotto.
Gioco che non vi farà sentire la necessità di domandarvelo? Sì, decisamente sì.
Non dovete cercare troppo in Child of Light, non dovete porvi troppe domande. Rischiereste di intellettualizzare un qualcosa che di per sé non è intellettualizzabile e vi porterebbe incredibilmente a non coglierne il senso già lì al vostro primo impatto, una sensazione che aspetta solo di essere perpetuata per tutta la durata che il gioco ha da offrirvi.
Il senso di quella bellezza che non necessita ragionamenti, catalogazioni o prefissione di intenti, traduzioni, o tantomeno complicanze. Che non aspetta di essere generata da una sensazione subordinata da alcun divertimento.
Una bellezza che aspetta di nascere quindi solo, per essere colta.