“Life is Strange“: la vita è strana, non c’è niente da fare.
Per quanto uno nasca e tenti di procedere nel percorso a fari spenti, senza farsi neanche troppo notare, non potrà non ritrovarsi un giorno a guardare dritto nel vuoto avanti a sé a pensare ‘diavolo se è strana la vita’.
E dire che il suo flusso è addirittura lineare, ai limiti dello scontato.
Si nasce, si vive, si muore.
E dove sta la stranezza?
Non bastasse questo anche il resto degli elementi in gioco, se analizzato, non è per nulla rincuorante.
Si è felici, si è tristi, di nuovo felici e così via.
Ci si innamora, l’amore finisce, poi ricomincia, e così via.
Ci si lava, ci si sporca.
Si mangia, si avrà fame e si mangerà di nuovo per avere fame ancora, ancora e ancora.
La vita è un flusso lineare prevedibile e ostinatamente ciclico scandito dal tempo, chiuso in sé senza una minima via di fuga.
Dalla nascita alla morte, passando per la crescita, anche l’esperienza più strana che possiate immaginare sarà ridotta e ricondotta a un fattore del ciclo stancamente conosciuto.
Però la vita è strana. E’ un dato di fatto.
Quasi un prodotto ormai dogmatico del pensiero collettivo. E smontando il cinismo del pensiero analitico si possono trovare miliardi di piccole anomalie che la compongono. Esistono le coincidenze. Esistono le andate, e i ritorni con percorsi improvvisamente deviati. Esiste la causa prevista, esiste l’effetto inaspettato. Ed esistono gli episodi piccoli che cadendo l’uno sull’altro generano eventi di portate gigantesche. La vita è strana, anche nel suo ciclo.
E in questo ciclo un fattore di stranezza ulteriore è che pur coscienti di vivere in frammento di tempo riusciamo a reputarlo come fosse la sua base portante, la base portante di tutte le vite, una specie di elezione a centro esatto dell’attenzione universale. Attimi importanti più di altri seppur della stessa durata. La magia e l’infinito di un istante. Il nostro.
E quando gli attimi, una serie particolare e precisa di questi attimi, si adageranno coinvolgendo una persona specifica essa cambierà senso a tutto il resto del contorno, facendolo diventare apparentemente uno spettacolo sempre mutabilmente inaspettato. Ecco: si delinea la via di fuga da questo ciclo.
Amicizie.
La vita è strana. Sì.
Non perché permette a se stessa di essere un ciclo stanco. Non perché permette di scoprire delle vie di fuga che lo spezzino, e ci salvino. No.
Ma perché permette a queste via di fuga, queste amicizie, di allontanarsi.
Life is Strange non è una storia.
E’ più una cucitura.
Una di quelle un po’ sfilacciate, intessute su un giubbotto sempre più vecchio che ci tiene a farsi vedere integro, anche se guardato nel dettaglio porta i segni dello strattonamento del tempo. La cucitura resiste ma ha usure evidenti.
E così capita alla cucitura dell’amicizia che c’è tra Max e Chloe, amiche inseparabili d’infanzia, vecchie piratesse di Arcadia Bay, divise per un periodo lungo, troppo lungo, a causa del trasferimento di Max. Un’altra città, e la promessa di non perdersi nella distanza.
E dire che questa distanza non sarebbe neanche così proibitiva per tenerla ben intatta. Ma quando una cucitura viene per troppo tempo lasciata a se stessa anche il più piccolo degli spazi può diventare una gomma che piano piano inizia a sfregarsi sopra il foglio. E così, quando Max dopo anni ritorna in città ritrova quella ragazza che era la sua migliore amica, sì; ma il tempo ha fatto anche per lei il suo dovere. Chloe è cambiata, porta i segni delle sventure di una vita che le ha portato via un padre anzitempo, mascherando il rimorso con la ribellione di capelli blu elettrici e addosso ancora quella cucitura che all’amicizia ora mischia un po’ di rabbia per essere stata dimenticata. Ma è lì, visibile, presente in tutte le sue nevrosi, e la storia della loro amicizia, del loro rinsaldamento, è proprio quello che Life is Strange vi farà vivere in un modo già visto per meccaniche, ma mai per intensità.
Parlando di tempo, strappi e cuciture, quest’avventura grafica episodica (seguendo lo stesso modello delle serie TellTale) baserà la sua narrativa proprio sull’antilinearità. E’ infatti la teoria del caos a far ruotare gli eventi intorno a Max e al suo inspiegabile potere di riavvolgere la linea temporale a seguito di una visione che predice l’imminente distruzione della città di Arcadia Bay, mistero e catastrofe al quale tenterà in tutti i modi di trovare soluzione mentre però non potrà sottrarsi alle problematiche che affliggeranno la sua vita da campus da normale adolescente, e alle strane sparizioni che stanno avendo luogo all’accademia Blackwell.
Dopo il mai troppo elogiato Remember Me, Dontnod , sviluppatore francese di indubbie qualità, si cimenta nuovamente con la tematica del ricordo acquisendo di diritto il titolo di specialista di settore. Questa volta però i cambiamenti sulla linea del tempo saranno per via diretta perché Max potrà effettivamente cambiare piccoli particolari delle scene che si troverà a rivivere riavvolgendo il tempo quando le sembrerà più opportuno. Scelte che non si riveleranno nient’affatto semplici, e anche la risposta migliore, il gesto più banale, o quello ritenuto più opportuno per il momento, potrà far avviare processi a catena inaspettati.
La formula vincente del gioco, già vero e proprio cult, sta sicuramente nella simbiosi di questi aspetti di gameplay con una storia che riesce ad unire una delicatezza propria di opere come “Stand by me” ad aspetti misteriosi e fantastici. Il giocatore, tramite questa mistura sapientemente dosata, non potrà non rimanere incollato allo schermo ad ogni finale episodico che con un tra un cliffhanger e l’altro tenterà di far avviare senza il minimo respiro quello successivo.
Al di là di questo, già durante la prima scena in game, più che la meccanica sarà lo spirito emotivo dell’opera a non lasciare dubbi sull’impronta del proseguo. La camminata di Max tra i corridoi della scuola, isolata dal mondo con cuffie e musica a tutto volume mentre la scuola, e il mondo, le scorrono a fianco (con la musica che viene fatta sentire al giocatore stesso e fa scomparire i rumori ambientali) sono una dichiarazione di intenti precisa. Il primo tassello di una rievocazione di atmosfere e situazioni proprie della visione del mondo da occhi adolescenti che ci faranno vivere la loro storia nell’immersione più totale. La musica come colonna sonora salvifica di ogni piccolo momento; i pensieri scanzonati ed incerti a caccia di ogni dettaglio del mondo che possa aiutare loro a comprendersi un po’ di più. Il campus, le canzoni, le piccole situazioni iconiche riempite di ogni dettaglio che i film americani hanno provveduto a fare almeno un po’ nostri funzionano da collante, e creano un’opera americana nel midollo che non potrà non rievocare nel giocatore le proprie passeggiate per la scuola, e quei rapporti e situazioni che costruiscono un mondo a sé stante così distante da quello adulto appena al di là del selciato.
Life is Strange costringe a riprocessare il proprio percorso di crescita parallelamente a quello di Max. La scoperta, attraverso il suo potere, che ogni più piccola azione ha una conseguenza a volte devastante è perfettamente allegorica, e il tentativo di salvare il mondo, o il rapporto di un’amica ritrovata, sono mosse empatiche che arrivano al cuore del giocatore senza il minimo sforzo.
L’intuizione geniale è l’utilizzo dell’amicizia femminile, da sempre un fenomeno di difficile comprensione sia per chi la vive sia per chi lo osserva, strumento che non fa che esaltare tutto il contesto emotivo dell’opera, capace di sottolineare in maniera magistrale i momenti cardine con canzoni e melodie tratte da quello che sembra essere un vero e proprio american’s teen drama nella sua veste migliore e più profonda. Rientrare nella camera che è stata sfondo di così tanti ricordi, passeggiare per i binari mano nella mano, osservare il tramonto del sole dall’altura vicino al faro. Ogni piccolo momento corrisponde ad un cristallo di tempo che tenta di rigenerare quella cucitura.
E più la ferita verrà lavata e disinfettata più quell’amicizia diventerà la cosa da difendere: da ogni nuova incomprensione, dalle vicende in cui si verrà cacciati, dai tragici effetti dell’effetto farfalla.
Non bastasse questo, a non lasciare scampo, ci pensa l’elemento da sempre più devastante per acuire sentimenti di tristezza e malinconia : le fotografie.
La loro onnipresenza è un tratto distintivo fondamentale: l’importanza che rivestono sarà sia narrativa che caricaturale per alcuni personaggi, ma è la vicenda a far sembrare Life is Strange un’ immensa fotografia in movimento per come è capace di cristallizzare gli attimi, per come ne addolcisce i contorni, per come li spolvera da qualunque antro in cui siano per sbaglio finiti nascosti. Per come ci fa capire che non ci si libera mai del passato, e il passato non si libera mai di noi.
Ad aumentare il grado di empatia che si avverte giocando a Life is Strange aiuta sicuramente la sceneggiatura dei dialoghi, la quale riesce a non far scadere nel banale tematiche che potrebbero risultare abusate e già trite e ritrite. Una stesura che fa uso di molti gerghi contemporanei, gestita con un ritmo mai blando aiuta a comporre la caratterizzazione di personaggi che non risulteranno originali (a parte Chloe che sta sicuramente una spanna sopra tutti nel bene o nel male) ma decisamente credibili e sinceri, elemento imprescindibile e basilare per il funzionamento della storia.
Altri elementi che aiutano a comprendere la sincerità del prodotto intero, e permettono al giocare di sentire sulla propria pelle la responsabilità di ogni azione compiuta, sono sia la portata delle conseguenze di queste (capaci di cambiare radicalmente l’atteggiamento dei personaggi nei nostri confronti e le loro reazioni sul lungo periodo) sia il graduale ingigantimento della loro portata. Se ad un primo momento le scelte a cui saremo chiamati ci sembreranno solo contestuali al tempo più prossimo il gioco ci smentirà, scalfendo la noia e la “prevedibilità” che al secondo episodio si inizieranno ad avvertire per meccaniche ripetute, dandoci in mano cambiamenti più radicali, in un sistema progressivo di impatto devastante.
A livello di regia il gioco si avvale, come di consueto per il suo genere, di meccaniche particolarmente cinematographic oriented, ma, a contrario di prodotti simili, riesce ad innalzare il rapporto tra medium videoludico e cinema/serial ad un livello forse finora mai sperimentato; sperimenta e fonde una delicatezza propria di titoli ambientali (Gone Home) con una storia dinamica, ricca di mistero, intima e cucita su misura, senza pescare da prodotti Tv o fumettistici che ne supportino la struttura o la vincolino a tematiche di diverso tipo. A leggere la sceneggiatura Life is Strange difficilmente si direbbe efficace per il medium su cui viaggia.
E invece è devastante.
Oltre quest’aspetto l’illuminazione gioca un ruolo fondamentale per ricostruire il tramonto continuo in cui Life is Strange sembra costantemente immerso, un tramonto fatto di raggi di luce cadenti che perdono la loro vivace brillantezza per abbandonarsi ad una melanconica maturità.
Pur spendendo righe e righe di descrizione è difficile descrivere realmente la bellezza di questo titolo.
La delicatezza di un’amicizia che si ricompone, che si rinsalda e ritrova i suoi tempi perduti nell’infanzia, non ha parole adatte per essere espressa. Sono i momenti singoli che compongono questa cucitura l’unica entità in grado di spiegarla e di far capire come mai il tempo non riesca a strapparla in nessun modo. Ne riavvolgendolo ne stravolgendolo ne tentando di evaderlo per avere in premio un futuro migliore.
E’ il tema dell’inevitabile il confronto a cui Life is Strange ci porta, suo malgrado. La sua riflessione più grande con cui ci fa scontrare insieme ai suoi personaggi, lasciandoci comunque liberi di scegliere. E in tutto questo cambiare, questa componente antirelativa, spietata, è l’elemento che dona ancora più importanza ai tentativi di una ragazza e la sua migliore amica di rimanere l’una a fianco dell’altra, anche coscienti che il volo di una farfalla avrebbe la forza per spezzarle di nuovo.
La vita è strana.
Per come ci fa incontrare. Per come ci divide, per come ci fa incontrare di nuovo, e per come lascia a noi la scelta di separarci o rimanere insieme.
Per come ci cuce, e per come lascia a noi la responsabilità di non farsi strappare.
Per quella contraddizione chiamata inevitabile su cui ci fa scontrare.
Per quell’invito continuo a contrastarla anche inutilmente per tentare di salvare tutti i nostri fili.