Questo sito contiene diversi annunci Amazon. A ogni vostro acquisto riceviamo una piccola commissione.
Innamorarsi di un mercato non è mai una cosa esattamente semplice. Già la sola parola “mercato” diciamo che cozza prepotentemente con ogni sentimentalismo di sorta. Ma io, chissà perché, del mercato dei videogiochi sono sempre stato un po’ innamorato. Non so se è dipeso da come ho iniziato ad approcciarlo. Ovvero, volente o nolente, da possessore/tifoso dell’underdog di turno. Sta di fatto che a fianco della passione per i videogiochi stessi, anche la passione per il loro mercato non è mai stata secondaria. Osservare le mosse di Sony, Microsoft e Nintendo mi ha sempre dato uno stimolo importante. Sicuramente anche molti di voi avranno vissuto, e tutt’ora vivono, di questi stessi sentimenti. E possiamo dirci serenamente che, rispetto ad altri mercati mediatici, sicuramente il videogioco è quello che, nella sua storia, (anche solo guardando agli hardware manufacture) ha avuto una identità più marcata. Aspetto a cui sicuramente dobbiamo lo scatenarsi di questa passione insolita, e che ha da sempre avuto come side effect quel male ancestrale chiamato console war.

Ma ora le cose stanno cambiando. E non cambiavano da parecchio tempo, pensando soprattutto all’hardware. Gli ultimi forti scossoni di questo mercato parlano di 2001: anno in cui Sega si sfila dalla corsa del mercato console per lasciare spazio all’ingresso di Microsoft con la sua neonata Xbox. Restando proprio si questo tema, ora, oggi, 2025, guardando al destino di Microsoft sul lungo, lunghissimo periodo, ci sembra sempre più lontana l’idea di vederla come azienda produttrice di console. C’è fermento, diciamo, nell’aria. In attesa di questo, nelle ultime decadi altre cose invece sono già cambiate, in molti altri aspetti di questo mercato: modello distributivo, struttura dei publisher, vita morte e miracoli dentro gli studi di sviluppo, packaging dei giochi, modelli di monetizzazione, struttura stessa dei contenuti multimediali e iniziative di marketing. Nulla è uguale a come lo era vent’anni fa, naturalmente.
Ma, dopo tutti questi cambiamenti, guardando al passato, uno arriva anche a porsela la domanda romantica, provando ad approcciare la questione da un punto di vista razionale ed obiettivo.
Arrivati a questo punto ci sono ancora le basi per provare questi sentimenti così forti?
Ci sono, e ci saranno ancora, motivi validi per innamorarsi del mercato dei videogiochi?

Questione di identità
Inutile provare a non ammettere che (come anticipato nella premessa) parte dell’amore che tutti noi proviamo per il mercato videoludico dipenda in larga parte dalle forti identità che i produttori di hardware, nel tempo, sono sempre riusciti a infondere nelle loro macchine, e a trasferirci in milioni di modi. Un’identità che derivava solo parzialmente da aspetti di product design (anche se hanno sempre aiutato a promuovere, in positivo e negativo, l’iconicità di una macchina). Molto più, invece, proveniva dall’esperienza che queste macchine promettevano di vendere ai loro consumatori ideali, con software esclusivo che permetteva all’utente di identificarsi nella macchina, nel concetto di gioco stesso che la console voleva promuovere. Basti pensare a quanto ti sentivi underground e rock’n roll nell’essere uno che giocava a Sonic piuttosto che a Super Mario, o quanto potevi sentirti parte della rivoluzione fotorealistica e multiplayer possedendo una Xbox rispetto a Playstation 2, nella sesta generazione.
Ora questo tipo di mercato, e di offerta, si sta smontando pezzo su pezzo. Guardando dal punto di vista meramente dell’hardware è possibile che in un futuro neanche così lontano (come sostiene la campagna di marketing “This is an Xbox”) Microsoft si allontanerà gradualmente dal fattore produzione; e, per giocare a quelle storie incredibili, capaci di lasciare il segno come i migliori kolossal cinematografici, non ci servirà più una Playstation, ma ci basterà aspettare alcuni mesi per giocarli anche su PC. Lo streaming di Game Pass, Playstation Premium o di servizi come GeForce Now sicuramente attueranno una trasformazione di modello, dandoci come risultato un mercato nuovo: ciò che per vent’anni è rimasto solido sulle tre concorrenti storiche ora si trova totalmente in fase di rivoluzione, e ne stiamo vedendo per la prima volta i dei germogli evidenti.

Non è solo un tema hardware
Ma non possiamo limitarci solamente a una disquisizione sul fronte hardware. L’identità non è solo roba pratica. Gli elementi che stanno cambiando e sono già cambiati passano anche dal software e dal suo modello di packaging. Se pensiamo a com’era l’esperienza di contatto con un videogioco negli anni ’90, con quelle scatole immensamente meravigliose che contenevano all’interno elementi (manualistica e creatività grafiche) evolutesi poi negli anni ‘00 nelle varie collector’s edition, capiamo bene come anche solo maneggiare un gioco si rivelasse automaticamente una sorta di esperienza a sé stante, addirittura prima di aver schiacciato anche solo un bottone. Scatole, collector’s che, automaticamente, mentre giocavi, provavano visivamente a ricordarti di continuo quanto ti stavi affezionando a quel gioco, e soprattutto lo continuavano a fare dopo che lo avevi terminato, quando lo sguardo fuggiva verso lo scaffale e tu magari neanche ti ricordavi più di quel titolo. Ora lo sguardo fugge alla libreria digitale, un luogo asettico, così simile a un catalogo Netflix in cui una sola immagine di copertina deve sgomitare fra mille per trovare il tuo occhio, e una qualsivoglia dimensione passionevole da trasmettere.
Anche i luoghi d’acquisto sono cambiati, passando dal piccolo negozietto di città, col negoziante di fiducia che rivestiva il ruolo di aggregatore massimo di ogni informazione disponibile, fino ad arrivare alle catene di distribuzione quali GameStop, un modello di vendita industrializzato sì, ma con un’identità ancora in grado di farti percepire un punto di riferimento sicuro quando volevi avere qualche nuovo stimolo o gingillo proveniente dal settore videogiochi, lì, pronto, fra le mani. Ora anche questa catena, questo punto di aggregazione è in forte ristrutturazione, con il rebranding in GameLife, che chissà nell’epoca della distribuzione digitale quanto ancora potrà resistere.
Parlando di vendita, non si può non citare la flessione del marketing che sosteneva un’industria che viveva di agilità e innovazione. Ora, quello con cui abbiamo a che fare, né è solo un lontano e disilluso parente: chi vi parla ricorda come fosse ieri le pubblicità in TV della prima Xbox (Life is Short), o come non pensare al celebre claim “Genesis does what Nintendon’t” di Sega; oggi ci troviamo invece immersi in una comunicazione che, come ogni società di settore, punta più alla lead generation tramite social e affissioni web prive di incisività o, peggio ancora, di memorabilità, lasciando un buco grosso nella cultura popolare. Una cultura che si nutre anche di queste leve per creare e mantenere nel tempo quel legame affezionale fra brand e cliente.

Parliamo di chi li crea questi giochi
Ma, appunto, veniamo a uno dei nodi più spinosi e dolenti. Parte, tanta parte, dell’amore che proviamo per questo settore deriva anche dalle personalità che stanno dietro le quinte, che gravitano intorno a questi mondi digitali, e che abbiamo imparato a conoscere nel tempo. Non serve citare per forza personalità di spicco come Hideo Kojima o, parlando di qualche anno fa, il David Cage di turno; al videogiocatore basta affezionarsi al nome dello sviluppatore se, nelle sue varie pubblicazioni, ne individua una firma, una sorta di fil rouge artistico che decide di sposare, legandosi così alla sua visione. Quello che successe con Lucas Arts per i fan delle avventure grafiche o con Bioware per gli amanti dei giochi di ruolo, per intenderci. Un amore che però ora rimane sempre più attaccato alla confezione, all’involucro dello studio, più che allo studio di sviluppo in sé: costanti licenziamenti e tempi di sviluppo ecumenici rendono le figure all’interno del medium sempre più liquide, intangibili, se non nel mercato indipendente dove ancora è possibile sentirne l’effetto e la personalità, arrivando a toccare quasi per davvero la mano di chi sta strutturando il titolo.
Una situazione che dà vita a fenomeni assurdi, che testimoniano il disamore stesso delle aziende per i loro stessi prodotti: caso da manuale è l’esempio del mancato ritiro del premio assegnato a Life is Strange: Double Expousure, da parte di Deck Nine Games, proprio a causa dell’onda di licenziamenti avvenuti all’interno del team di sviluppo.
Notizia che ha destato clamore sui social, ovvero gli ambienti dove ora ci confrontiamo, e dove esprimiamo la nostra passione. Ma purtroppo anche questi non aiutano certo a innamorarsi di questo settore come invece riuscivano a farlo, e provano ancora, i forum, che però contano sempre meno presenze. Se i social hanno democratizzato (apparentemente) la possibilità di esprimersi e far sentire la propria voce con la propria rete di contatti (e non), c’è da dire che nel nostro settore molto spesso questa voce e usata a sproposito (per non dire di peggio) con compagnie che si vedono obbligate ad attivare piani anti-molestie per difendere i propri dipendenti dall’onda di insulti che il web riserva sempre per il gioco sotto i riflettori mediatici di turno (vedasi il lancio di Assassin’s Creed: Shadow, poi fortunatamente andato per il meglio sotto questo punto di vista).

La speranza divampa
Se tutto quello che vi abbiamo elencato va ovviamente nella direzione del “no, non è più possibile innamorarsi di questo mercato”, ci sono fortunatamente anche pesi da mettere anche dall’altra parte della bilancia.
Possiamo iniziare citando Insomniac: le recenti dichiarazioni del team di sviluppo arrivano in difesa dello sviluppo del mercato. Ted Price afferma di “pensare che sia come tutte le sfide che abbiamo affrontato in Insomniac negli ultimi 31 anni: e cioè che ci sono delle soluzioni”.
Affronta il tema dei budget mostruosi e dei tempi di sviluppo biblici, lui. Ma se non si perde di animo chi si trova a confronto con la sfida apparentemente impossibile di realizzare open world che possano arrivare sul mercato per tempo e riuscire ancora divertire, non possiamo farlo nemmeno noi.
Tutto cambia: per ogni cosa che cade una nuova si alza in supporto. Gli stessi social, che hanno appiattito alcune parti della comunicazione, ora ci permettono di essere incredibilmente vicini agli sviluppatori. E questa è una cosa meravigliosa. Conoscerli personalmente, capire cosa c’è davvero dietro il loro lavoro. La multimedialità permette a brand e redazioni di svolgere approfondimenti e documentari di realtà grandi medie e piccole, che non avremmo mai potuto scoprire così da vicino e così tanto nel dettaglio. Il lavoro di Xbox con “Power On” rimane l’esempio più alto dell’industria, mentre è impossibile contare il lavoro di approfondimento svolto da testate professionali e appassionati che ogni giorno si lanciano per sviscerare ogni angolo di questa industria. Se siamo in grado di indirizzare adeguatamente l’algoritmo dei nostri social su questo tipo di prodotti e informazioni, la sempre minor mancanza di barriere non può che essere benzina sul fuoco della passione di chi ama questo medium.
Esiste inoltre sempre il mercato indie: con le sue storie di sviluppo fatte di sudore, case ipotecate e camerette di ragazzi che provano a diventare improvvisati studi di sviluppo per portare al mondo la propria visione di videogioco e divertimento.
Anche il problema delle console viste come commodity apre spazio ad altro: se le console diventeranno trasparenti, sempre più centralità di conseguenza assumerà il ruolo di publisher ed editori (basti pensare alla trasformazione di Microsoft) su cui calerà il grosso della responsabilità di immagine, con il dovere e le responsabilità di riuscire a veicolarla. L’affezione che ora proviamo nel pensare all’equazione – Sony = grandi storie single player da raccontare – potrebbe diventare anche per gli altri editori la strada da percorrere per riuscire a incastrarsi nel cuore dei giocatori. Far capire che dietro a un marchio c’è di più: c’è una firma, c’è una direzione e una visione autorale. Questo insieme di fattori sarà la leva più importante, che non lascerà i giocatori in balia dell’idea che dietro i nostri amati videogiochi ci siano solo gruppi multimilionari disposti a tutto pur di estrarci soldi dal wallet.
Quindi è ancora possibile innamorarsi del mercato videoludico? Assolutamente sì.
La cosa principale che è cambiata, in sunto, è il grado di responsabilità di questo amore. Se prima era più semplice e potevamo vedercelo calato dall’alto in modalità broadcast, ora che internet sta completando quel processo di smaterializzazione e di resa liquida del medium iniziato negli anni ‘90, non possiamo più adagiarci sugli allori. Per amare questo medium ci verrà sempre chiesto un po’ del nostro zampino: la responsabilità di questo amore dipenderà anche dal nostro impegno nel cercare la luce in mezzo a tutto il mare di sconforto che sarà possibile percepire.
Sarà un amore che richiederà impegno: come ogni amore vero.