L’ombra del gioco che non vuole essere ricordato

Tra le meraviglie che Internet ci ha regalato vi è sicuramente la possibilità di ricercare qualunque tipo di informazione in pochissimi istanti. Qualche parola tag (la più indicativa possibile, non serve neanche sia troppo precisa), un click, e via: l’informazione è servita.
Il numero di pagine a disposizione, pari solo alla smisurata capacità di calcolo e di espansione di questo universo in costante divenire, è la base fondante su cui questo oceano di nomi e di parole posa il suo impero. Tanto non se ne vede la fine che il pericolo che qualcosa non lasci la sua traccia, compresi noi con i nostri social-profile, è stato teatralmente sconfitto. Ogni cosa ora, parafrasando Warhol, può accedere ai propri 15 minuti di celebrità passando per un minimo di 15 righe di testo scolpite nell’etere internautico, a garanzia di una piccola e infinitesimale immortale rintracciabilità.

Il gioco dei paradossi ad ogni modo è un moto costante e non si spaventa certo nel vedere, in questa impossibilità di perdita e di cancellazione di contenuto, un tappeto elastico sul quale far rimbalzare il concetto per sbattercelo in faccia in maniera opposta. Come? Prendiamo l’esempio sottostante.

Vi è mai capitato di trovarvi con quel qualcosa sulla punta della lingua che proprio non riuscite ad afferrare?
Sì, sicuramentesì.
Beh, cosa si fa a quel punto?
Facile, ci si scervella. Ci si scervella tanto, ma così tanto, da tornare però esattamente al punto di partenza.

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Ma- c’è un ma- grazie al progresso tecnologico , da buoni predatori d’informazioni quali siamo, accedere ad internet è il nostro novello istinto primordiale, e, tramite delle informazioni di contorno, anche blande banali e indefinite quanto un cane nella nebbia, grazie a quella famelica ricerca eccoci arrivare fino nei meandri più profondi della nostra memoria (dove neanche lei stessa riusciva in solitudine ad addentrarsi), accendendo la luce su quella paginawww che finalmente ci servirà su un piatto d’argento tutto quello di cui eravamo bramosamente in cerca.
Una rete che tutto può e che tutto contiene, senza alcuna gelosia del tenere per sé.

Ma- ed ecco il paradosso- nonostante questa rete, nonostante questa grande messa in comune di coscienze e conoscenze crei quella che potrebbe essere riconosciuta come la protesi virtuale del grande spirito a cui saremo tutti ricondotti, qualcosa, incredibilmente, grazie a questa folla di bit sfugge nelle ombre create dalle nostre freccette mouse vaganti per link ed iper-link.

Perché tutto nella rete può essere ricercato e trovato.
Tutto.
Tutto, tranne il gioco che non vuole essere ricordato.

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Il gioco che non vuole essere ricordato è un gioco che tutti abbiamo avuto, ma che nessuno ricorda mai esattamente quale e -cosa- fosse. Se ne rimane latente durante le serate d’estate e d’inverno, si nasconde sia col gelo che con il caldo del deserto, per risaltare fuori d’improvviso come fosse un fior di primavera nato dall’asfalto, a metà tra la sensazione d’esserci stato per davvero e il timore dell’esser il refuso di un sogno, o di una storia senza tempo per qualche motivo collegata al nostro.
Risboccia zoppicante, torna in mente con dettagli che non hanno forma esatta, ne nome. Dettagli che sono tali solo se staccati dalla volontà di concretizzarli lasciandoli germogliare liberi nella terra che più compete loro, quella della sensazione.

Il gioco che non vuole essere ricordato è il gioco che ci ha trovato prima che noi potessimo iniziare a cercarlo. Non sappiamo bene neanche come ci sia finito in mano. Il primo ricordo che abbiamo di lui è confuso quanto preciso : ci vede lì, in qualunque posizione fossimo, con occhi sgranati e mani attaccate con la colla di chi sta per impartire un ordine vitale.
E’ forse il gioco che ci aveva prestato un amico di cui non ricordiamo il nome o il cugino di cui si sono perse le tracce da un po’, o quello incastrato in quel cabinotto dimenticato nell’angolo di quella vecchia sala giochi :  tutto, come lui, piano piano finisce per perdersi come complici dello stesso inganno.

Il gioco che non vuole essere ricordato muoveva addirittura un personaggio sfumato. Aveva un’ identità precisa, ma non si sa come con il passare del tempo, secondo dopo secondo, anno dopo anno, l’ha scambiata per un contorno semimobile di poche animazioni ma incredibile potenza. La sua pesantezza di movimento è diventata un’agilità felina che al tempo avremmo scambiato per qualunque nostra articolazione pur di riuscire a saltare come solo riusciva lui. E non distruggeva città no, nessuna iper-realistica distruzione di palazzi o pianeti da far collidere a colpi di combo; solo due attacchi, ad andare bene una magia- un paio se proprio il destino gli aveva riservato buona sorte- ma in lui, e in quella sua sfumatura, c’era la presunzione di riuscire ad essere un eroe anche con poco, con le carte che aveva, in soccorso di un mondo che l’aveva già destinato come tale, ma già che c’era, si prendeva la briga di arrivare in soccorso anche del nostro: un destino però quello, a cui lo eleggevamo noi.

 

Il gioco che non vuole essere ricordato aveva un titolo che nemmeno ricordi perché semplicemente, il titolo, per te, non è mai esistito.
Nessun brand secolare, nessuna compagnia di sviluppo mitizzata, nessuna guerra di bandiere tra amici a cui prendere parte, o intenti artistici sbandierati e più o meno raggiunti: tutto il contorno spariva, tutte queste scritte, qualunque cosa fossero, erano solo scritte, e , dovunque esse fossero, non erano che scarabocchi senza senso, un preludio strano ed obbligato a cui di per forza sottostare prima di arrivare a quel momento in cui il tuo partecipare avrebbe fatto la differenza per un mondo altrimenti per sempre destinato a rimanere immobile.

Aveva, nel suo muoversi, quel gameplay che non siamo più riusciti a trovare pur sentendo il suo odore dovunque; è un amore liceale e come tale ci tiene farsi rimpiangere ogni volta che può. Abbiamo avuto migliori storie, migliori dinamiche, migliori animazioni e infinite possibilità di scelta dopo di lui, ma niente, non c’è speranza, per quanto l’equazione del divertimento sia sempre più vicina a raggiungere la sua definitiva soluzione concedendoci il prodotto perfetto, c’è sempre un qualcosa dentro di noi che ci ricorda di quel gioco che non ci provava neanche ad essere perfetto, e trovava il risultato di quel equazione difficile con un calcolo semplice, semplice almeno quanto l’iniziare a divertirsi anche al solo pensiero della parole ‘giocare’.

Provare a ricordarsi quale fosse è un tentativo a cui siamo per natura forzati a sottostare; cercheremo di lui in ogni manuale, in ogni angolo di casa, ne parleremo con chiunque ci sembri portarne il seme addosso, convinti che dimenticandolo potremmo averlo fatto arrabbiare o che si sia sentito mancato di rispetto, e che la bellezza strana, a tratti inspiegabile, di quel gioco, debba essere per forza riportata ad un oggetto, ad un titolo, ad un ‘perchè‘.

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Ma il problema di quella strana bellezza, il problema vero del gioco che non vuole essere ricordato, era fondamentalmente uno, ed era il suo riflesso. Il riflesso che il mondo vedeva di lui, nello specifico.
Perchè per quanto dall’esterno la luce lo rendesse semplicemente molto simile ad un’accozzaglia di pixel mal assembrati agli occhi di terzi , da un’unica –unica– posizione nell’universo infinito intero, precisamente la nostra, era possibile scorgere un qualche frammento di meraviglia per gli altri inscopribile, e che, al primo contatto, ci implorava di non rivelarne la posizione mai a nessuno, sancendo un sacro patto che ci avrebbe legato a lui, e al suo segreto, per sempre: parti di quella meraviglia incompresa al prezzo di rimanere un po’ incompresi anche noi, mentre il coro scomposto di voci intorno si chiedeva cosa diavolo ci trovassimo di tanto bello in quelle figure abbozzate, in quell’inciampo continuo di pixel l’uno sull’altro.

Avrebbero continuato a chiederselo, e noi avremmo continuato ad occupare quel posto in prima fila per una verità migliore, una verità perfetta, quella che non necessitava di alcun consenso.

 

Non se ne farà un dramma il gioco che non vuole essere ricordato se non lo troverete nelle chiacchiere tra amici, nei vostri brainstorming su google o nelle vostre nottate insonni. No.
Perchè a non essere ricordato in fondo ci tiene un po’.
Ci tiene ad essere quel qualcosa di libero ed inafferrabile, di ribelle e al contempo gentile, di unico nel suo sfuggire al periodo de ‘La Grande Archiviziazione‘ e di esaustivo nel suo far scoprire il senso strano di quel qualcosa che pur non lasciando una traccia decisa, scava addirittura di più, e lascia un’evidenza più estesa, nascondendosi per sempre in un posto caldo non rintracciabile per indirizzo ma più semplicemente per sensazione.

La cosa ancora più bella, la cosa ancor più incredibile del suo naturale istinto mimetico e trasformista è che nessuno sa quale sia stato, e nessuno sa nemmeno quale sarà. Proprio ora anche tu potresti star giocando al prossimo gioco che non vorrà essere ricordato. E non ti è dato saperlo in alcun modo.
Ma diciamo che se mentre giochi guardi appena dove sei seduto, e ti senti al primo posto nell’universo, beh, forse nella sua ombra, ci hai già sbirciato un po’.

Sull'autore

Alessandro Tonoli

Grande appassionato di Videogiochi fin dalla più tenera età (si narra sia stato partorito in ritardo in quanto non avendo salvato, non poteva uscire) si diverte a scrivere per questo o quell'altro sito pur di dare un suo piccolo contributo alla diffusione del Videogioco come mezzo, non solo ludico, ma anche artistico ed emotivo.
Da buon Boxaro preferisce i boxer agli slip.

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