Quantum Break, la difficile ricerca di nuove fratture narrative

I titoli Remedy sono certamente quel genere di opere che solitamente da soli valgono l’acquisto di una console.
Lo sa bene Microsoft che con loro sembra da anni utilizzare il metodo della carota più che del bastone, concedendo allo studio, generalmente, un ampio margine di libertà di scelte in termini sia di progetti, che di tempistiche di sviluppo. Ultimo punto che diventa alla fine dei conti il vero flagello che pesa sui joypad di noi videogiocatori che (celebre il  caso Alan Wake) ci costringiamo a seguire la cometa di ogni annuncio con un’accettazione remissiva, non frenetica, come se sapessimo che il “Natale deve arrivare quando deve arrivare” senza possibilità di anticipo.

Queste elasticità non sono certo frutto del caso: come detto sopra, i Remedy quando sfornano un gioco lo fanno solo 3004537-quantumbreak-site_720_20160210con la coscienza di riuscire a smuovere l’ambiente videoludico in una qualche maniera. Lo fù per il bullet time di Max Payne, lo riuscì ad essere per quella fantastica fusione tra storytelling e action/mistery game chiamata Alan Wake, e, non avevamo dubbi, lo tenta di essere anche questa volta con il loro nuovo figlioccio “Quantum Break”. Un titolo che, attenzione attenzione, questa volta porta addirittura in sé un termine sicuramente tanto caro a questi piccoli maniaci delle rivoluzioni: break – spezzare ovvero, creare una frattura.
E se già dalla sua prima lettura questo monito inconsapevolmente aveva risuonato perfettamente in noi, avvertendoci che le cose ora potevano iniziare a farsi davvero serie, l’annuncio vero e proprio del gioco di quell’ormai lontano E3 di inizio new-gen (già old?) non aveva certo ridimensionato le aspettative.
Come ridimensionarle d’altronde quando uno degli studi di sviluppo leader del mercato annuncia un progetto dove il confine tra videogioco cinema e serie Tv sarebbe stato totalmente scardinato? Come anche solo lenirle lievemente quando più i trailer si facevano numerosi, più le meccaniche di gameplay venivano rivelate, meno si riusciva realmente a capire come questo gioco sarebbe stato strutturato?

E non era un problema cognitivo. Nessuno ha avuto improvvisi deficit mentali o ha iniziato a urlare “Jambalaya!” per le corsie di un ospedale. No, le parole erano chiare. Come lo erano i video-reportage e le principali quanto continue fughe di notizie, ma la mente proprio non voleva riuscire a capire a cosa ci saremmo trovati davvero di fronte.

Perché? Perché era tutto perfetto: la mente percepiva e si gettava a capofitto in quella sensazione di sconosciuto, in quella che a conti fatti definiva come, oddio, eccola lì davvero – una frattura verso il vecchio modo di narrare.

Quantum Break è uscito da ormai diverse settimane. Tutte le maggiori testate hanno già parlato di lui e gli hanno affibbiato il bollino che più pensavano adeguato, se ancora pensare di riuscire a dare un voto ad un titolo Remedy può considerarsi davvero un’attività seria o su cui riversare anche la minima onestà intellettuale. E, appunto per questo, ne eravamo certi, è riuscito a creare il solito spaccato critico con votazioni che non riescono ad afferrare appieno il sentimento dell’utenza. Ma, forse, mai come ora, si ha finalmente un centro per tentare di capire, o di avvicinarsi il più possibile, ad una percezione oggettiva di questa ennesima opera firmata da questo studio di sviluppo che sembra sempre più un pianeta a se stante, un satellite capace di orbitare intorno al mondo videoludico con una propria distanza e una propria velocità.  Questa frattura, c’è stata?

Quantum Break

La frattura di cui vi tenteremo di parlare ora è, come accennato sopra, quella che riguarda soprattutto la modalità narrativa ibrida con cui Quantum Break decide di tentare di immergervi nella sua storia. Ibrido e immersione sono due termini assolutamente focali in questo caso in quanto nel loro assoluto letterale identificano il modo e l’obiettivo che il gioco si prefigge di utilizzare e di raggiungere in una maniera assolutamente innovativa. L’ibridazione è quella relativa al medium utilizzato: se è vero che il medium è il messaggio, come diceva MacLuhan nei suoi studi sociologici, allora sicuramente il videogiocatore comprando Quantum Break ha sicuramente fatto un ottimo affare poichè in un solo disco potrà installare sulla sua console un videogioco ed una serie TV. Due messaggi quindi e un’unica storia a tenerli legati tra sessioni di gameplay e puntate che ci mostreranno non una banale side- story, ma si prenderanno il compito arduo di narrare da punti di vista differenti gli sviluppi della trama principale.

Brevemente vi illustriamo lo scherma: sessione in-game – scelta della biforcazione da far prendere alla storia (saremo in grado di prevederne gli sviluppi grazie a particolari poteri) – puntata, e così via. La meccanica di gioco è quindi presto spiegata. I due messaggi sono messi così in sequenza al fine appunto di arrivare a un grado di immersione più strutturato senza abbandonare il concetto di fluidità proprio del messaggio uni-lineare.

In fondo quello che tenta di fare Quantum Break non è altro che quello che in linea di massima da diverso tempo avviene già con una ampia fetta di titoli tripla A. Si crea un mondo videoludico e poi, tramite altri medium (libri, serie web in live action etc) lo si espande lasciando al videogiocatore il compito di andare alla caccia dei suoi tesori, obbligandolo però per questo a posare per un attimo il joypad creando quello che nel transito tra un medium e l’altro può essere visto come un momento di disincanto, un buco temporale in cui dal non-luogo in cui il giocatore si trovava torna ad essere perfettamente locato nel reale, creando quella sorta di disimmersione anche solo momentanea.  E l’idea di Remedy, come per tutte le intuizioni geniali, non ha neanche un che di particolarmente impensabile nel 2016. Arrivare alla domanda “ma perché bisogna posare il joypad?” non ha in sé niente di luminare se non per il fatto che chiunque, posta la domanda, risponderebbe “effettivamente…”. Considerando poi che attualmente console è sinonimo di media- center quale migliore scelta di un videogame e una serie Tv, i due attuali mercati di riferimento per i nuovi consumatori di massa (ovvero i “consumatori di storie”) per riuscire a creare quel grado di immersione totale, quella frattura tecnica verso un nuovo modo di narrare.

Quantum Break

Perché posare il joypad?

Ma se un lato della medaglia sembra indicare l’intuizione di Remedy come un fattore evolutivo quasi naturale, l’altra faccia rivela una forma inaspettata, o perlomeno non di così semplice intuizione. Una tesi di contrasto che vorrebbe indicare l’elemento di distacco come un fattore in realtà utile all’integrazione narrativa. 

Perché posare il joypad dovrebbe essere necessario?

Posare il joypad se da un lato potrebbe apparire come una eiezione forzata dal mondo da noi (e per noi) costruito, dall’altro è una pratica che può permettere di non perdere una sorta di coerenza che due medium diversi per forza necessitano come collante.
Ci spieghiamo meglio: l’effetto che si avverte alla prima puntata live action di Quantum Break è lo stesso effetto di una smentita giornalistica: come se tutto quello che ci avessero detto prima non fosse più improvvisamente valido. Ma non per coerenza narrativa. E’ una sorta di conflitto stilistico che mette in crisi la nostra “sospensione dell’incredulità”, quel processo mentale che ci permette di credere (ad esempio mentre leggiamo) agli avventi immaginifici con cui stiamo venendo a contatto. Esattamente quello che avveniva in tempi remoti quando due pixel montati l’uno sull’altro riuscivano ad immergerci in un mondo ben più grande che arrivavamo a considerare credibile. E se essa si attiva già con il primo minuto di gioco, dove Jack Joyce, seppur con un grado di definizione molto alto, è un elemento di un mondo simulato a cui abbiamo deciso di credere per il tempo stesso della durata storia, l’improvviso palesarsi di situazioni di contrasto date da un medium che riporta sì gli stessi contenuti, ma in una natura decisamente opposta addirittura coerente con il reale comunemente percepito, crea una sorta di disappunto, e ci fa implicitamente mettere in dubbio quel che prima era un assoluto incrollabile creato dalla nostra mente. Ci fa, per riassumere sensitivamente, saltare la mosca al naso. Matrixianamente parlando potremmo parlare di dejavù, non nel senso di già visto, ma come se avvertissimo che qualcosa improvvisamente non tornasse nel sistema. E se qualcosa non torna nel sistema l’immersione dello stesso è proporzionalmente opposta: quel che doveva aiutare il giocatore ad immergersi maggiormente nell’opera diventa un ostacolo, una frizione.
E allora sorge spontanea la domanda: posare il joypad era un limite, o un’azione necessaria?

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Non siamo qui per fornire risposte. Possiamo però tentare di scavare ancora un po’ più a fondo in queste percezioni, scoprendo così che quel che in prima battuta è sicuramente un effetto di distacco forte, con l’andare del gioco e l’abitudine alla meccanica diventa poi una sensazione più lieve, parcheggiata e percepibile giusto con la coda dell’occhio. Un post-it che riusciamo a non considerare e che quindi ridona a Quantum Break tutta quella potenza narrativa di cui è sicuramente proprio, regalandoci ore di divertimento e un nuovo strano modo di fruirne: come se il videogioco per una volta si avvicinasse per davvero al medium Tv nel suo elemento più caratteristico, quello del palinsesto. Un ritorno al tutti fermi che inizia la puntata.

Forse un elemento decisamente d’aiuto sarebbe stato quello di inserire una giustificazione interna alla storia (un escamotage narrativo che sfruttasse lo switch tra videogame e realtà senza evitarlo, avete presente Space Jam?) anche se sicuramente avrebbe reso la vita difficile a uno studio di sviluppo che aveva la sua storia già ben chiara in testa. Una storia che sicuramente risulta ben congegnata, e mette in risalto le caratteristiche di Remedy nel puntare l’attenzione su un personaggio principale carismatico, che riesce a reggere il peso di una scrittura frizzante anche se molte volte fin troppo semplicistica nei toni, cosa che limita l’appeal via via che la meccanica della narrazione diviene sempre più prevedibile.

L’altro difetto su cui è impossibile soprassedere è un aspetto di gameplay su tutti: non si sa come ma Remedy continua, anche nel 2016, a inciampare in meccaniche di copertura che ormai in un tps non possono che essere considerate basilari quanto date per scontate. D’altro canto lo sviluppo dei poteri e il loro utilizzo concatenato tappa la falla, donando ai combattimenti i giusti stimoli e una bella dose di adrenalina.

Quantum Break

Quantum Break è quindi la frattura che Remedy si aspettava?
Non esattamenteQuantum Break, dovendo fare un paragone, potrebbe essere considerato più che altro una prima breccia. E come tutte le prima aperture, nel suo collage pionieristico trova molto di quello che cerca ma senza avere la cura di dosarlo o organizzarlo nel giusto modo, creando un prodotto ibrido le cui meccaniche restano originali e difficilmente paragonabili ma ancora necessariamente sviluppabili.

Insomma, i due messaggi arrivano di sicuro, ma non si fondono in un unico capace di creare una frattura definitiva nello stile narrativo videoludico, vuoi per una storia troppo semplicistica nei suoi passaggi, vuoi per il passaggio continuo che avviene tra medium di differente natura e che lasciano preda di un’immersione quasi perplessa.
Un titolo d’altra parte imprescindibile per lo stimolante narrative mix, per il gameplay frizzante e peculiare, e per quelle stupende sensazioni che, pad alla mano o meno, il mondo di Quantum Break dalla sua breccia riesce a trasmettere senza curarsi, dall’alto del suo satellite, di quello che il mondo videoludico penserà di lui.

Sull'autore

Alessandro Tonoli

Grande appassionato di Videogiochi fin dalla più tenera età (si narra sia stato partorito in ritardo in quanto non avendo salvato, non poteva uscire) si diverte a scrivere per questo o quell'altro sito pur di dare un suo piccolo contributo alla diffusione del Videogioco come mezzo, non solo ludico, ma anche artistico ed emotivo.
Da buon Boxaro preferisce i boxer agli slip.

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