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The Last Case of John Morley è quel classico caso in cui ti innamori della scena del crimine… e poi il fascicolo ti cade letteralmente a pezzi tra le mani. Sulla carta ha tutto: investigatore disilluso, omicidio irrisolto da vent’anni, maniero inglese mangiato dall’umidità e una nebbia che più cliché di così si muore. Nei primi minuti, mentre cammini per i corridoi con una torcia che illumina a malapena due metri e la voce di Morley che borbotta alle tue spalle, ti sembra di aver trovato il tuo piccolo noir da goderti in una sera di pioggia.
Poi inizi davvero a giocare, e il castello comincia a scricchiolare. Le conversazioni non si possono saltare in nessun modo: né skip, né fast‑forward, niente. Se una linea è recitata lenta, te la sorbisci lenta. In un gioco pieno di dialoghi e testi, sembra quasi una scelta deliberata per allungare il brodo più che per darti tempo di “gustarti” la storia. Il problema è che i testi non aiutano: appunti medici e lettere sono pieni di refusi, parole mozzate, persino il nome della villa cambia ortografia da un documento all’altro. In un detective game, dove sei abituato a leggere ogni virgola come possibile indizio, questa sciatteria ti fa uscire dall’indagine a calci.

Quando ti muovi nel maniero, il loop è quello giusto: esplori, cerchi indizi, ricostruisci le scene del crimine, risolvi qualche enigma ambientale. C’è persino un puzzle coi quadri che sembra uscito da una escape room fatta bene, e in qualche ricostruzione senti davvero quel “click” mentale da buon giallo. Ma per ogni intuizione azzeccata c’è una porta che si apre contro di te e resta bloccata finché non ti trascini all’indietro come un gambero, o un corridoio identico a quello di tre minuti prima che ti fa perdere il filo e la pazienza.
La cosa che brucia di più è che l’atmosfera, quando il gioco smette di inciampare, funziona alla grande. Il sonoro, con scricchiolii, colpi lontani e quel silenzio pieno che ti fa controllare l’angolo buio due volte, regge benissimo. Non è un horror e non vuole esserlo, ma quella sensazione di non essere mai del tutto solo te la porta a casa. Peccato che il design scambi quantità per profondità: pagine su pagine di note ripetitive, nessun vero taccuino in‑game per tenere traccia dei codici, backtracking in ambienti sempre più bui e sempre più uguali. Più che un grande detective, dopo un po’ ti senti un archivista con l’emicrania.
E poi arriva il finale, che tenta il colpo di scena da “grande rivelazione” ma finisce per tirarsi la tovaglia via da solo. Le basi ci sarebbero anche, qualche seme messo prima c’è, ma la messa in scena e le spiegazioni non reggono il peso dell’ambizione: invece di restare lì a rimuginare sui dettagli, chiudi i titoli di coda con un “eh?” più che con un “wow”.
The Last Case of John Morley, insomma, è quella vecchia cartellina in fondo all’armadio: il caso è interessante, l’odore di carta e fumo di sigaretta ti attira, ma appena inizi a sfogliare ti accorgi che metà dei fogli sono stampati male e gli appunti essenziali mancano. Se sei disperato in astinenza da noir in prima persona, puoi anche dargli una chance sapendo a cosa vai incontro. Se invece vuoi davvero sentirti un detective, forse è meglio lasciare Morley al suo archivio e passare al fascicolo successivo.










