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L’ultima fatica di David Cage è giunta sui nostri scaffali da ormai un mese, ed a seguito di tanti anni di uno sviluppo che definir “travagliato” è riduttivo abbiamo provato nella sua interezza anche questo Detroit: Become Human che, come successo anche per i precedenti lavori targati Quantic Dream, seppur autoproclamandosi il vero “breakpoint” (l’evoluzione delle ormai defunte avventure grafiche), non riesce per via di scelte ludo/narrative già ben rodate dai classici cliché cinematografici a detenere quella personalità tale da assurgere a quel vero salto di qualità tanto ambito.
Il progresso richiede sacrifici
L’inesorabile miglioramento tecnologico rappresenta inopinabilmente la naturale evoluzione (in termini di risoluzione) delle nostre esperienze videoludiche e dall’ormai datato Fahrenheit, ossia prima vera grande produzione di Cage, a questo Detroit c’è effettivamente stato un processo evolutivo atto a bilanciare tutt’oggi i due titoli con un peso specifico ben differente ma che detengono al contempo delle scelte stilistiche alquanto discutibili dal punto di vista oggettivo, soprattutto dal lato narrativo, passabili di critica.
Bisogna essere ben consci di sapersi approcciare a questo vero e proprio genere videoludico, poiché il filo conduttore (nonché grande pregio che li unisce) è la particolare interazione che il fruitore deve esser sottoposto per poter vivere queste esperienze similmente comparate all’universo cinematografico, ma che hanno le potenzialità di offrire al videogiocatore la responsabilità di partecipare “attivamente” anche al susseguirsi degli avvenimenti, per poter farci cambiare e plasmare a nostro diletto l’universo di gioco.
Cage e l’autorialità
Il filone narrativo di Cage è sempre stato oggetto di pesanti stereotipi e di generalizzazione negative a riguardo, ed alle volte anche di pessimo gusto, che riescono purtroppo a denigrare in un modo del tutto ingiustificato la qualità produttiva del buon David. Che, nonostante tutto, è riuscito a dare nuova linfa ad un media videoludico all’epoca ormai stantio di idee, con questa metodologia d’approccio al videogame ripresa a piene mani anche dai titoli di Telltale Games, che è riuscito a proporre storie impattanti come The Walking Dead ma al contempo prive di una propria personalità autoriale: una caratteristica ben presente per esempio in un Metal Gear di Hideo Kojima o nell’ultimo capitolo di God of War di Cory Barlog, i quali riescono a sopraelevarsi a questi ultimi grazie ad espedienti e intuizioni ludo/narrativi davvero ben congeniali.
Purtroppo la personalità autoriale è sempre stata il “tallone d’Achille” di Cage, dal momento che anche in Detroit Become Human ha cercato paradossalmente di adottare soluzioni ludiche e narrative un po’ vecchie, ben rodate, ma senza quel tanto bramato guizzo artistico.