Draugen (PS4) – Recensione

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Ricordo ancora con sorriso una puntata di Grand Tour (disponibile su Amazon Prime Video) ambientata nella penisola scandinava. Jeremy scherzava su quel classico genere scandinavo cinematografico (ovviamente esagerando) in cui una donna risolve un caso misterioso guardando per ore un lago. Dico questo non perché Draugen sia un gioco brutto, ma piuttosto perché a un certo punto della storia mi è sembrato proprio questo. La storia nasce parzialmente nel 2013, ma dopo tanti reboot, ci troviamo per fortuna davanti a qualcosa di diverso dall’idea iniziale. Draugen di Red Thread Games è un thriller-noir che prende per la sua semplicità e proprio per questa semplicità, cattura senza alcun problema il giocatore, che in questo caso sono io.

Draugen

Lo spirito del passato

Siamo nel 1923 e su una barca a remi ci dirigiamo verso Graavik, un villaggio speduto nel cuore della Norvegia. Ci troviamo a interpretare Edward Charles Harden, un americano il cui scopo è quello di ritrovare la sua sorella perduta, Betty. Ad accompagnarci ci sarà una giovanissima ragazza di nome Alice, che in certi punti sarà anche il personaggio più naturale dell’intera vicenda. Arrivati all’interno del villaggio è chiaro che qualcosa non va. Non c’è nessuno da nessuna parte e se inizialmente questa sensazione sembra non destare molte preoccupazioni, ben presto tutto cambia.

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Quello che risulta essere particolarmente interessante in questa storia è la psicologia di un personaggio cosi complesso e strano come Edward. L’uomo ha un ossessione malsana verso sua sorella scomparsa e questa lo porta e non provare nessuna empatia verso gli altri. Risulta facile capire che la sua debolezza racchiude molti più problemi di quanti da a vedere, ma la storia ce ne mostra solo alcuni. Risulta comunque chiaro che l’intento iniziale della narrazione del gioco è ancora presente, anche se non vediamo nessuna vera presenza.

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Il non gameplay che serve

Il gameplay di Draugen è semplice, quasi banale. Si tratta di un titolo simile a tanti altri in cui l’esplorazione guidata la fa da padrona, narrandoci una storia con un ritmo serrato. Questo ovviamente vuol dire che non ci annoieremo comunque, ma camminare senza poter fare praticamente niente è un’esperienza per chi ama questo genere. Cosa logica, ovviamente. All’interno del gioco potremo prendere gli oggetti, scavalcare le barriere e in generale muoversi abbastanza liberamente, ma i tasti necessari per tutto questo sono due o tre in croce. L’unica parte diversa arriva con i dialoghi, in cui potremo cambiare decidere le risposte in base alle nostre esigenze.

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Il budget di Red Thread Games di era piuttosto risicato durante lo sviluppo e ciò lo si nota da subito. Sicuramente hanno influito i reboot, ma in linea generale posso dire che in questo caso ci troviamo davanti un indie game piuttosto classico. Le figure poligonali umane sono piuttosto precise e dettagliate, e cosi anche i molteplici oggetti contenuti nelle case, ma gli alberi, l’acqua e la vegetazione in generale mostrano i limiti tecnici del gioco. Questi limiti, però, mostrano la parte artistica, che arde in modo deciso. Il quadro pittoresco che alla fine dei conti ne viene fuori cattura lo spirito da fotografi di ogni giocatore. Ad aiutare alla totale immersione ci pensano sia l’ottimo doppiaggio inglese, sia la colonna sonora evocativa. La durata del gioco è di un paio d’ore, ma forse è meglio cosi.

Sull'autore

Rostislav Kovalskiy

Un non troppo giovane appassionato di tutto quel che ruota attorno alla cultura POP. Vivo con la passione nel sangue e come direbbe Hideo Kojima "Il 70% del mio corpo è fatto di film".