The Last of Us Parte II e la sua narrazione indimenticabile

Joel di The Last of Us Parte 2 HavocPoint

Quando posi il pad dopo essere arrivato alla fine di The Last of Us Parte II scatta un’innata pulsione divulgativa. Succede sempre così con tutte le opere che sanciscono un netto cambio di marcia e rappresentano un rito di passaggio, con un medium che si ritrova improvvisamente quanto inconsapevolmente diverso nel momento in cui le digerisce. Successe la stessa cosa con il primo episodio, anni e anni or sono. Successe la stessa cosa due anni fa, quando nel 2020 per la prima volta la stampa specializzata di tutto il mondo mise le mani sulla creatura di Naughty Dog, incensandola come meritava senza alcuna riserva. E succede la stessa cosa anche oggi, riprendendolo in mano per farci un “secondo giro”, proprio appena prima dell’uscita della serie TV appena sbarcata su Sky Atlantic.

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Un buon mondo per cominciare l’anno, forse non dei più allegri, ma certamente il più efficace per comprendere (e far comprendere al mondo esterno al settore) lo stato dello scenario videoludico, e dei racconti che ora fungono da punto di riferimento per il media. Un medium che fatica a scollarsi di dosso la semantica stessa del termine “videogioco”, in cui la parte “gioco” continua a essere preponderante nell’immaginario collettivo, portando spesso fuori strada il pubblico generalista, che della semantica è spesso vittima.


Un pubblico che d’altronde non si è potuto rendere conto dell’evoluzione di questo media non provando sulla sua pelle, gioco dopo gioco, il continuo processo di maturazione delle narrazioni che le produzioni di punta (e anche quelle più sperimentali) portano fra le nostre mani. Giusto così, da un certo punto di vista. Perché il videogioco è prima di tutto esperienza, e senza quella manca l’elemento basilare per comprenderlo. Fate questo piccolo esperimento su voi stessi, se non ci credete: potreste parlare con coscienza di questa maturità tanto sbandierata se toglieste dalla vostra mente esperienze come Death Stranding, Red Dead Redemption 2 o… The Last of Us, appunto. Difficilmente.


Senza le esperienze dirette fatte con determinati titoli la nostra stessa percezione del medium sarebbe molto più acerba. Nell’impossibilità, è ancora più importante riuscire a creare un contatto, anche differente, con questi immaginari. Ed è per questo che proprio con la serie TV in mano a HBO si potrebbe raggiungere un nuovo punto fondamentale nel processo di divulgazione popolare della cultura videoludica. E che a farci raggiungere quest’obiettivo sia proprio l’IP di The Last of Us sembra semplicemente la cosa più giusta del mondo. Vediamo insieme perché.

The Last of Us



La più grande storia mai raccontata

Prima di The Last of Us non è che ci fosse il vuoto, intendiamoci. All’epoca dell’uscita del primo episodio la critica incensò il titolo come il culmine di una maturazione videoludica che finalmente trovava il coraggio di mostrarsi, fiera e senza più mezzi termini, trovando un connubio perfetto tra una storia matura, profondamente incentrata sulle relazioni fra i personaggi, dalle grammatiche cinematografiche e con dinamiche di gameplay che non si sacrificassero per permetterne un magnifico inscenamento. Anzi: per la prima volta si sviluppavano in maniera perfettamente allineata col racconto, rimando tese e adrenaliniche in maniera costante. Ma c’era stato tanto altro prima, e tutti nell’ambiente ne erano perfettamente consci. Basti pensare ai piccoli fenomeni di quella stessa generazione, con “The Walking Dead” e “Journey” che forse più di tutti erano stati in grado di distinguersi e sottolineare con sufficiente forza anche al mondo esterno quanto videogioco e arte fossero ormai prossimi a un matrimonio anche in chiave “pop”. La storia di Ellie e Joel aveva però qualcosa di unico e riconoscibile anche per occhi inesperti, e riuscì così a ergersi come vero e proprio testimonial di un movimento culturale videoludico che poteva permettere all’intero ambiente di raccontarsi finalmente all’esterno in maniera fieramente autoriale. Tutti all’epoca abbiamo pensato che fosse arrivato finalmente quel “cavallo di battaglia” di cui era impossibile non accorgersi, impossibile da “minimizzare”. Era vero. Tanto che HBO proprio in questi giorni ne parla come la più grande storia videoludica mai raccontata. E infatti, nel post The Last Of Us, si sono aperti anni in cui è impossibile non notare come l’hollywoodizzazione (o Nautidoghizzazione) dei titoli si sia sempre fatta più evidente, un segno che è diventato una strada che Sony ha deciso di perseguire al meglio delle sue forze, facendo convergere su quella formula gran parte dei suoi progetti interni.

Ellie di The Last of Us Parte 2 davanti alla sua casa

Nuove frontiere narrative


Facendo un salto di molti anni (e di un’intera generazione) l’arrivo di The Last of Us Parte II segna un secondo turning point fondamentale: arrivato anch’esso in chiusura “filosofica” di generazione è stato ancora una volta un riconoscibile punto svolta, trasmettendo all’esterno una sorta di nuova importante presa di consapevolezza del medium. Sì, perché se il primo TLOU “semplicemente” imbastiva un racconto prettamente relazionale (cosa in un certo senso non così ambiziosa, in narrativa transmediale) il secondo TLOU abbandona quella zona di confort dello storytelling, decidendo di mettere in secondo piano la narrazione delle relazioni fra i protagonisti per privilegiare un protagonista concettuale. La vendetta. La catarsi, o, se vogliamo, anche l’importanza del “punto di vista” nel racconto, la sensibile inesistenza del limite fra buono e cattivo, sostituito dalla missione educativa, il voler rendere cosciente il giocatore che fondamentalmente si “tifa” per chi nella storia protegge qualcun altro. Una missione narrativa decisamente più complessa della precedente, per qualunque opera e qualunque tipo di medium, compiuta neanche a dirlo alla perfezione. Così lo studio mette un nuovo importante tassello nello sviluppo del medium che proprio grazie a questo risultato non solo si riesce a far prendere tremendamente sul serio, ma riesce a dimostrare in chiave estremamente main stream di poter parlare non solo di ottimi personaggi e belle storie, ma anche di filosofie e concetti, rendendoli chiaramente protagonisti.

La narrazione pressoché perfetta di The Last of Us


 
Il perfetto testimonial per il palco più importante

Vedere questa IP farsi strada anche nel mondo seriale sembra quindi la cosa più giusta, oltremodo perfetta. Arrivare a tradursi nel format che forse più di tutti ora sembra in grado di parlare al pubblico generalista è quello che serve: il cinema su questo fronte da anni sta arrancando, e sembra non essere più quel veicolo capace di cambiare le sorti di una produzione per aiutarla a rafforzarsi nell’immaginario collettivo; il buzz mediatico che ne deriva anche in caso di ipotetico successo al botteghino è troppo limitato e abbraccia sempre una fetta limitata di persone. In più, come sottolineato recentemente dallo stesso Neil Druckmann, il minutaggio di una pellicola limita eccessivamente storie e universi pensati per essere sviluppati su oltre 30 ore di gioco. TLOU e il videogioco sembrano quindi aver trovato il momento perfetto, e la produzione giusta, per arrivare finalmente sul palco più importante del panorama mediatico per gridare al mondo: guardate che storie si raccontano in questo media.

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Pur non essendo la prima volta che un videogioco si incarna nel formato seriale, il peso della produzione e la responsabilità sono ben diverse da quelle che potenzialmente poteva avere la decisamente troppo bistrattata serie su Halo, arrivata proprio nel 2022, o la acclamatissima Arcane.
TLOU porta sul palco lo stemma di autorialità riconosciute in ambo i mondi, come quelle di Neil Druckmann e Craig Mazin, e di un certo filone narrativo considerato sacro per il cinema (perché dietro qualunque cosa ricordi uno zombie ricordi anche George Romero) e questo gli mette addosso tutte le luci del caso: riuscendo ipoteticamente a fare breccia, con una produzione che è riuscita ad avvalersi del peso di attori affermati come Pedro Pascal e Bella Ramsey, potrebbe venire ricordato come la prima grande serie TV tratta da un videogioco, capace nuovamente di far riflettere l’opinione pubblica su quanto questo media sia diventato la culla delle migliori storie in circolazione, dalle più sperimentali alle più tradizionali. Il futuro in cui arrivare a parlare senza soluzione di continuità, con le stesse persone, di The Road e The Last of Us, o di Dune e Mass Effect, sembra così farsi più vicino.

Tifiamo tutti per la buona riuscita della serie TV di TLUS. Ma quali saranno questa volta le ripercussioni future sul nostro media? Basandoci solo sull’ultimo titolo Naughty Dog, a due anni di distanza dalla sua uscita, c’è da dire che poco sembra si sia mosso. Con la generazione più lenta della storia che stenta a decollare, il seme lanciato da questa produzione sembra non aver ancora attecchito. Ma è lì, ed è evidentemente presente.


Con il suo stesso studio di sviluppo che ora sembra pronto a raccoglierlo, lanciando lo sguardo nel prossimo futuro, parlando di un prossimo progetto più vicino alle grammatiche del mondo seriale che al cinema. Nessuna novità, neanche in questo senso, perché ci aveva già provato Quantum Break, sbagliando però completamente il tiro, e i punti di convergenza di due media che vivono in dimensioni distanti e che in certe cose devono rimanerlo. Ma l’intuizione è preziosa, e quel seme piantato merita di germogliare ancora sotto lo sprono costantemente indotto dallo studio di sviluppo di Santa Monica verso l’intero ambiente. E se continueremo a indovinare i punti di contatto fra questi due mondi mediali (con Sony già pronta a produrre con Amazon la serie su God of War) possiamo realmente contare sul fatto che l’accezione più superficiale del termine “videogioco” abbia le gambe corte, spostando l’attenzione della stampa generalista da Fortnite e COD per privilegiare il dialogo su opere che siano capaci di arricchire la cultura sociale.


Perché le storie che viviamo tramite questo media sono preziose per l’intera collettività, ed è giunto il tempo di liberarne completamente la potenza. Se riusciremo a farlo, bene e con continuità, dovremo dire grazie una volta in più alla meravigliosa e dolorosa parabola di Ellie e Joel capace di portare il videogioco oltre i limiti del medium, e addirittura della sua stessa semantica.

Sull'autore

Alessandro Tonoli

Grande appassionato di Videogiochi fin dalla più tenera età (si narra sia stato partorito in ritardo in quanto non avendo salvato, non poteva uscire) si diverte a scrivere per questo o quell'altro sito pur di dare un suo piccolo contributo alla diffusione del Videogioco come mezzo, non solo ludico, ma anche artistico ed emotivo.
Da buon Boxaro preferisce i boxer agli slip.