My Hero Academia #2-5 – Recensione

My Hero Academia

Con la fine del secondo volume, My Hero Academia apre finalmente le porte al vivo dell’azione, puntando fin dall’inizio a uno dei vecchi cliché sempreverdi, il torneo.
In qualsiasi manga per ragazzi, il torneo è una fase quasi immancabile, anche nei generi in cui effettivamente non si combatte. I tornei interscolastici sportivi come in Haikyuu, le gare di cucina in Food Wars e i veri e propri tornei alla Dragon Ball riescono sempre a catturare l’attenzione del lettore soprattutto per quanto riguarda i rapporti di potenza. Il protagonista, che da subito presenta uno spiccato talento, deve confrontarsi con vecchi e nuovi rivali, quindi vi è un’amalgamazione accattivante fra passato e presente, creando curiosità nel lettore nel vedere quanto forte è il protagonista e quanto lo sono diventati i personaggi secondari e i nemici.

Fragile, troppo fragile

My Hero Academia in questo frangente si è preso un gran bel rischio.
Ma partiamo dal principio.
Dopo la prima vera prova fuori sede, i nostri giorni eroi tornano all’accademia dopo aver assistito uno scontro micidiale fra l’artefatto Nemu e All Might, il più grande eroe esistente e loro professore. Oltre a introdurre l’organizzazione anti-eroi, questo piccolo intermezzo fra l’entrata di Izuku nella Yuhei e l’inizio del torneo, l’attentato dei “cattivi” ci è molto utile per costruire le basi per ciò che avviene nella saga del torneo.
All Might, palesemente indebolito e sempre più in crisi, dimostra a Izuku di non poter continuare. Midoriya “Deku” Izuku deve diventare al più presto il nuovo simbolo della pace, prendendo il posto di All Might facendo capire al mondo che esiste anche lui. Questa situazione aiuta molto il rapporto fra i due, mostrandone una dipendenza reciproca; non si parla solo di un banale pseudo rapporto padre-figlio, ma è proprio una dipendenza necessaria.
Questo stato rende Deku molto fragile ed eccessivamente nervoso, portandolo sì a buoni risultati, ma anche ad azioni abbastanza impulsive e sicuramente evitabili dato il rischio nell’utilizzo del suo potere, l’One for All.

Lo stato di Izuku però può essere usato anche come metafora per la narrazione stessa di My Hero Accademia, visto che l’autore non si fa scrupoli, non dimostra nessuna incertezza e va avanti a testa bassa capitolo dopo capitolo, rischiando il tutto per tutto con una narrazione veloce e priva di limitazioni. Il voler raccontare l’essenziale in modo da non annoiare è sicuramente una buona strategia, ma la versione animata della Bones ha dimostrato chiaramente di poter comunque dimostrare a pieno tutto il potenziale del prodotto utilizzando un ritmo si più pacato, ma anche più drammatico. Le grandi animazioni di Nakamura, le musiche struggenti e le scelte registiche rendono l’anime molto più graffiante della controparte cartacea. Questo non vuol dire che l’anime sia per forza migliore, ma che riesce meglio nell’esprimere i concetti che l’autore si è mangiato.
La narrazione del manga è fragile, troppo fragile.

My Hero Academia
Tanti personaggi, forse troppi e troppo presto.

Tutto ciò porta a una piccola nota che si è dimostrata essere un grosso rischio per l’autore, ma sicuramente non un fallimento. Utilizzare il cliché del torneo a inizio serie è rischioso, perché non conoscendo ancora bene i personaggi secondari, introducendone di nuovi si rischia di far scemare un po’ la caratterizzazione generale, perdendo in profondità. Una profondità che, data la velocità della narrazione, si è persa già dal secondo volume.
Ciò non di meno, Kohei Horikoshi riesce a farsi valere, dimostrando di essere uno sceneggiatore degno di questo nome, riuscendo comunque a dare spessore a buona parte dei personaggi coinvolti, soprattutto Todoroki e Ochako, i due “protagonisti” indiscussi di questa saga. Sebbene nell’anime i loro momenti sono stati più avvincenti, anche nel manga si sentono le stesse vibrazioni, riuscendo a scalfire anche l’animo più gelido.

Impara l’arte, e mettila nelle ragazzine

Passando a un lato più tecnico, i disegni di Horikoshi non smettono mai di sbalordirmi, nonostante la loro semplicità. Il senso di dinamismo, seppur non eccellente, riesce comunque a imprimere negli occhi del lettore le scene d’azione, nonostante abbia bisogno di essere un po’ rivisto. Il tratto lievemente sporco dell’autore riesce a sottolineare bene le ombre, dando ulteriore realismo ai personaggi e integrandoli bene agli sfondi. Forse un utilizzo minore e meno ripetitivo dei retini avrebbe reso le tavole più pulite e piacevoli alla lettura. Va bene non essere il Tite Kubo della situazione, ma il diavolo è nei dettagli.

Il chara-design è forse la parte meglio riuscita, visto il cast particolarmente eterogeneo di personaggi e una caratterizzazione degli stessi sempre diversa e sempre comunque piacevole agli occhi. Eccezion fatta per Mineta, che anche lui comunque ha un suo perché, ogni personaggio riesce a mostrare il suo charm e a risultare iconico agli occhi del lettore.

Sicuramente, è il battle-shonen più interessante degli ultimi anni.

Sull'autore

Gabriele Gemignani

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